Notizie dal Togo

 Notizie dal TOGO



24 Gennaio 2021
CLIMA
Anche questo mese di Gennaio 2021 si sta concludendo nella regione Marittima del Togo (dove si trova Assahoun) caratterizzato da una totale siccità (0 mm. di pioggia) e da temperature elevate, dopo un mese di Dicembre trascorso con un regime analogo.
Come è noto in Togo ci troviamo in piena stagione asciutta: la stagione piovosa infatti va da Aprile ad Ottobre con due sotto-stagioni piovose con i massimi in Giugno e tra Settembre e Ottobre, mentre la stagione asciutta va da Novembre a Marzo. In Febbraio si registra anche il caldo maggiore (temperatura massima media di 32°C, percepita di 40°C).
Le ultime piogge significative si sono registrate nel Settembre scorso a Lomè con165 mm. nel mese, e a Kpalimè con 347 mm. ; Assahoun è più o meno a metà strada tra le due città.


10 Febbraio 2021
ECONOMIA
Slitta ancora il passaggio dal franco CFA all’ECO: nella ultima riunione della ECOWAS (CEDEAO in francese, la Comunità economica dell’Africa occidentale, i 15 paesi di lingua francese e inglese) è stato deciso che per tutto il 2021 non se ne farà niente. Il progetto di passaggio alla moneta unica indipendente nella zona Ecowas (di cui fa parte il Togo) era stato proposto inizialmente dai governi anglofoni (Nigeria in testa) ma ha subito suscitato polemiche e malumori tra i paesi anglofoni (che hanno monete nazionali) e quelli francofoni (che hanno una moneta unica, il franco CFA). Nel caso dei Paesi francofoni, l’adozione dell’Eco dovrebbe cambiare anche il principio che vuole che il 50% delle riserve nazionali in valuta estera sia detenuto presso la Banca di Francia, l’ex potenza colonizzatrice, dove peraltro vengono stampati i Cfa. Dovrebbe invece rimanere il principio di parità fissa con l’euro, che sebbene possa essere utile nel contenere l’inflazione, rappresenta secondo alcuni economisti africani un freno alle esportazioni. Il passaggio alla moneta unica Eco dovrebbe riguardare inizialmente gli 8 stati francofoni della UEMOA (l’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale, di cui fa parte il Togo) sotto l’egida della Francia, ma potrebbe diventare un segno di effettiva indipendenza africana solo con l’adozione da parte di tutti i 15 paesi dell’Ecowas e il definitivo abbandono del protettorato francese. Non va dimenticato infatti che la Francia si è riservata di stampare, distribuire e garantire l’ECO (tramite la parità fissa con l’euro), nonché di fungere da garante fiduciario nel caso di crisi valutaria della Uemoa.

27 Febbraio 2021
POLITICA
Dalla rivista Jeune Afrique, 19 Febbraio 2021
"1,55 miliardi di dollari nel 2022-2024: le priorità del Togolese Gilbert Houngbo al Fida."
Charles Djade - da Lomé
Gilbert Houngbo (L'ex primo ministro del Togo dal 2008 al 2012) è stato prorogato per quattro anni alla testa del Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (IFAD). Fu eletto nel 2017. (FIDA - in francese - o IFAD - in inglese -
Tra i suoi obiettivi, arrestare l'esodo rurale e combattere il cambiamento climatico. "Mentre la pandemia devasta ancora le zone rurali e si anticipa un aumento della povertà e della fame, è più urgente che mai che l'IFAD passi alla velocità superiore", ha dichiarato qualche ora dopo la sua riconferma. "Dobbiamo prepararci a questo. Nessuna donna o uomo che vive nelle zone rurali dovrebbe mai essere costretto a vendere i suoi miseri averi - o a emigrare - solo per sopravvivere".
Durante questo nuovo mandato, che inizia ufficialmente il 1º aprile, l'IFAD metterà l'accento 
sull'adattamento ai cambiamenti climatici e l'inversione della perdita di biodiversità.

12 Gennaio 2022
AMBIENTE
Nigrizia 12.1.22 riproduzione parziale dell’articolo di Rocco Bellantone 
L’Africa occidentale unita contro l’erosione costiera 
A rischio inondazioni quasi 54mila nuclei familiari. Ogni anno vengono risucchiati tra gli 1,8 e i 5 metri di litorali della regione. Dalla Banca mondiale 220 milioni di dollari per la costruzione di dighe e muri di protezione e opere di rimboschimento.
Per far fronte a questa emergenza, i governi di Benin, Togo, Senegal, Costa d’Avorio, Mauritania e São Tomé e Príncipe stanno portando avanti da alcuni anni una serie di azioni coordinate nell’ambito di un programma finanziato dalla Bm chiamato West Africa Coastal Areas Management Program (WACA).
Scopo del piano è impedire l’erosione di più di 110 km di coste nella regione entro il 2023: in parte costruendo dighe e muri di protezione, in parte recuperando più di 8mila ettari di terreno attraverso operazioni di rimboschimento. La posta in palio, d’altronde, è altissima. In gioco, infatti, c’è la messa in sicurezza di quasi 54mila nuclei familiari che rischiano di essere colpiti da inondazioni.
Avviato nel 2018 il programma – finanziato con un investimento iniziale di 221,7 milioni di dollari tra prestiti e sovvenzioni ai paesi aderenti, di cui 11,7 milioni stanziati dalla commissione dell’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (UEMOA) – sta mostrando qualche passo in avanti.
Al momento però, come riporta Jeune Afrique, sono state completate opere di contenimento solo su quasi 5 km di costa: in Benin, lungo la sponda meridionale del fiume Mono e alla sua foce; in Togo con la costruzione di barriere per più di 1 km; in Mauritania con lavori eseguiti su 2 km; a São Tomé e Príncipe dove sono state realizzate, sinora, una diga e una barriera protettiva.
Il governo del Senegal ha invece puntato su interventi di riforestazione, piantando distese di casuarina in quasi 50 ettari e di mangrovie in 8,5 ettari. Mentre in Costa d’Avorio, paese che intende mettere in sicurezza 13 km di cordoni sabbiosi nell’area di Grand-Lahou, i lavori inizieranno a partire da quest’anno.
A ottobre 2021 per l’attuazione della prima fase del programma sono stati stanziati circa 45 milioni di dollari, pari al 22% dei fondi complessivi a disposizione. I paesi che beneficiano di maggiori risorse sono Benin (58,6 milioni di dollari) e Togo (55,5 milioni di dollari), seguiti da Senegal (53,7 milioni), Costa d’Avorio (33 milioni) e São Tomé e Príncipe (9,3 milioni).
Nel giugno 2021 la Banca mondiale ha erogato un finanziamento aggiuntivo al programma di 36 milioni: 24 milioni sono andati al Benin, 12 al Togo. São Tomé e Principe, invece, ha ottenuto altri 6 milioni dal Global Environment Facility, il Fondo internazionale istituito alla vigilia del Summit della Terra di Rio del 1992 per aiutare i paesi alle prese con emergenze ambientali.
Per gli stati coinvolti vincere la sfida dell’erosione costiera non è solo una questione ambientale e di sicurezza umanitaria. Secondo stime della Bm questa emergenza costa solo a Benin, Costa d’Avorio, Senegal e Togo circa 3,8 miliardi di dollari, ovvero il 3,5% in media del loro Pil.

Chi sta pagando il prezzo più salato è il Senegal (7,6% del Pil), seguito da Togo (6,4%), Costa d’Avorio (4,9%) e Benin (2,5%). Al programma WACA dovrebbero aggregarsi, entro luglio 2022, anche Ghana, Gambia e Guinea Bissau. L’obiettivo è arrivare a coinvolgere 17 stati della regione.
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8 Febbraio 2022
POLITICA
Nigrizia 8.2.22 Riproduzione parziale dell’articolo di Antonella Sinopoli (da Accra)
Parla Daniela d’Orlandi: l’ambasciatrice italiana in Ghana e Togo 
«Nell’ultimo anno e mezzo in questa parte del continente, in Africa occidentale e in particolare nel Sahel, c’è stata un’epidemia di colpi di stato (in Mali, Burkina Faso e il tentato golpe in Guinea-Bissau, ndr), per citare le parole del segretario delle Nazioni Unite. Un’area turbolenta, ma non il Ghana e il Togo, che rimangono esempi di stabilità».
E’ da un anno e mezzo che Daniela d’Orlandi ricopre l’incarico di ambasciatrice di questi due paesi. In piena pandemia, in pieno periodo di turbolenze sociali e politiche. La incontriamo nella sede di Accra. Una sede che ha colmato anche di atti gentili e informali: piantare fiori nella residenza diplomatica, preparare tiramisù quando vengono organizzati eventi in ambasciata, senza dimenticare quei due gattini lasciati in eredità da qualche predecessore, Fufu (dal nome del famoso piatto locale) e Simba.
Le chiediamo il motivo per il quale Ghana e Togo – soprattutto il primo – sembrano lontani da rischi di delegittimazione dello stato, così forti in altri paesi.
Uno dei motivi è che sono estremamente impegnanti a contrastare una doppia minaccia: quella della destabilizzazione proveniente dal Sahel e le possibili infiltrazioni terroristiche lungo le loro frontiere settentrionali – tutti e due confinano con il Burkina Faso – e a sud la minaccia della pirateria nel Golfo di Guinea.
Quest’area del mondo ha registrato il 90% degli attacchi di pirati nell’ultimo biennio e nel 94% dei sequestri. In tale contesto è molto apprezzato il sostegno dell’Italia a contrastare la pirateria e i traffici illeciti in mare con esercitazioni congiunte e attività di formazione con le marine degli stati costieri. Impegni condotti dalle fregate italiane dispiegate nel Golfo di Guinea.
Un altro elemento che spiega questa stabilità è la coesistenza pacifica che questi due paesi sono riusciti a mantenere tra gruppi appartenenti a etnie e a religioni diverse. Un incontro che mi ha molto colpito è stato quello con il capo imam. Ha 102 anni, e alla sua età continua a diffondere messaggi di pace e tolleranza. Se ci fossero più personaggi così, nel mondo ci sarebbero sicuramente meno conflitti.
I rapporti tra l’Italia e questi due paesi, in special modo il Ghana, sono molto stretti e vanno indietro nel tempo. L’ambasciata ad Accra è stata inaugurata nel 1958, solo un anno dopo la proclamazione dell’indipendenza dal dominio britannico. In cosa si evidenzia il rapporto di amicizia e di collaborazione tra il nostro e questi paesi?
Sono rapporti eccellenti in tutti i settori, in quello dell’interscambio commerciale per esempio: l’Italia importa materie prime, prodotti agricoli, frutta tropicale ed esporta macchinari, tecnologia, prodotti farmaceutici. Ritengo che l’Italia possa dare un contributo molto importante alla trasformazione di tutte queste risorse naturali e sviluppare le industrie locali. Il partenariato sul piano commerciale può essere di reciproco interesse.
Poi c’è, sul piano politico, una condivisione di valori per quanto attiene la promozione della pace e della sicurezza, il multilateralismo e l’integrazione regionale. Il Ghana dal 1° gennaio è membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu, il capo di stato ghaneano è l’attuale presidente della Cedeao/Ecowas, quindi molto attivo nelle crisi regionali e negli sforzi volti a stabilizzare il Sahel che è anche una priorità del nostro paese.
Il Togo è stato vicepresidente del Consiglio dei diritti umani del 2020 durante il mandato dell’Italia. Come è noto il 1° gennaio dello scorso anno è entrato in vigore l’accordo di libero scambio dell’Africa continentale AfCFTA (Trattato di Libero Commercio Continentale Africano, in inglese African Continental Free Trade Agreement che regola l'apertura delle frontiere e la creazione di un'area di libero scambio tra i Paesi africani membri) che sicuramente darà grandi opportunità in materia di crescita economica.
Ghana e Togo si stanno impegnando molto per il successo di questo accordo e in questo possono contare sul sostegno dell’Italia che finanzierà programmi di formazione per i funzionari del segretario – che ha sede ad Accra – dei ministeri interessati ma anche entità pubbliche come le dogane. Tutto questo incrementerà anche i rapporti commerciali dei nostri partner africani con l’Ue e con l’Italia.
Come si muove l’Italia nell’ambito della cooperazione internazionale in questi due paesi. E quali attività e interventi sono privilegiati?
Molto importante l’apertura qui in seno all’ambasciata, lo scorso dicembre, di un’antenna dell’ufficio dell’Agenzia italiana della cooperazione allo sviluppo competente per il Ghana e per il Togo. Con questa presenza in loco ci saranno altre opportunità, magari di sostenere progetti già avviati qui in Ghana dalla società civile o dai missionari, oppure di avviare progetti anche in Togo e, perché no, in partenariato con le agenzie delle Nazioni Unite, come Unicef e OIM (L'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni).
I settori privilegiati saranno quelli della sicurezza alimentare, l’azione climatica, le Piccole e Medie imprese, con l’attenzione alla crescita delle forze locali, all’inclusione dei giovani e delle donne. Ma la società civile, devo dire, è molto presente in entrambi i paesi. Aggiungo che qui in Ghana ci sono una quarantina di Ong e associazioni italiane e una decina sono in Togo.
Quanti sono gli italiani iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all'Estero (A.I.R.E.)?
Per il Ghana sono circa 750 e una cinquantina per il Togo. Una novità importante è che è stata finalizzata, dopo una vacanza di oltre cinque anni, la nomina di un nuovo console generale onorario d’Italia a Lomé, che rappresenterà senz’altro un punto di riferimento importante per i nostri connazionali in Togo. In questo modo si potranno erogare più servizi rispetto a quanto era nelle competenze del corrispondente consolare.
In che modo l’ambasciata italiana fa sentire la sua presenza ai cittadini espatriati?
L’ambasciata deve far sentire la sua vicinanza soprattutto in tempi difficili, come è stato per la pandemia. Abbiamo lavorato molto lo scorso anno per nostri connazionali non iscritti all’A.I.R.E., che non avevano mai manifestato la loro presenza all’ambasciata. A causa della pandemia si sono ritrovati disoccupati, ammalati, indigenti, con un permesso ghaneano scaduto.
Li abbiamo aiutati a regolarizzare la loro situazione sul territorio ghaneano e per chi ne aveva bisogno, abbiamo favorito le procedure di rimpatrio. Lo abbiamo fatto anche con i connazionali che erano sulle nostre fregate e in alcuni casi è stato necessario organizzare rimpatri sanitari urgenti.
Cosa sta facendo l’ambasciata per consigliare e accompagnare gli investitori italiani?
Innanzitutto rispondiamo alle richieste di informazioni, poi quando ci sono offerte commerciali cerchiamo di promuoverle presso gli interlocutori locali, di agevolare, quando è necessario, gli incontri istituzionali e di promuovere i partenariati tra le ditte italiane di un determinato settore e quelle locali dello stesso settore.
Presso l’ambasciata lavoriamo in stretta sinergia con l’ufficio ICE (Agenzia per la promozione all'estero e l'internazionalizzazione delle imprese italiane) e con l’ufficio Sace (Società specializzata nel sostegno alle imprese italiane, in particolare le Piccole e Medie imprese) che al momento – ma ancora per poco – non ha una sede fisica. Se un investitore ritiene di avere un buon progetto può scriverci.
Lei è anche un’esperta di diritti umani, ha prestato servizio presso la Rappresentanza permanente d’Italia al Consiglio d’Europa dove si occupava di diritti umani e, nel 2016, è stata prima consigliera alla Rappresentanza permanente d’Italia presso le Nazioni Unite a Ginevra, responsabile della sezione diritti umani durante il mandato dell’Italia nel Consiglio dei diritti umani, appunto. Cosa sta facendo l’Italia per accompagnare l’Italia e il Togo verso la realizzazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu?
Comincio citando l’obiettivo 2 legato alla sicurezza alimentare e agricoltura sostenibile. La Cassa depositi e prestiti sta partecipando con una quota di oltre 44 milioni di dollari in un programma volto a sostenere la produzione di cacao in Ghana per aumentarne in modo sostenibile la quantità e la qualità a beneficio degli agricoltori.
Nell’ambito dell’educazione di qualità, obiettivo 4, l’Italia offre ogni anno borse di studio, della Farnesina e del programma Invest your talent in Italy, che è un programma della Farnesina, Ice, Confindustria, Unioncamere e le principali università italiane. L’obiettivo è dare la possibilità ai migliori talenti locali di perfezionarsi nel nostro paese.
Infine, ricordo l’obiettivo 13, la lotta al cambiamento climatico. C’è un programma del ministero della transizione ecologica italiano in collaborazione con l’U.N.D.P. (United Nations Development Programme- Organizzazione internazionale per l'attuazione del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, organo sussidiario dell'Assemblea generale dell'ONU) che consiste nella riforestazione della savana settentrionale con alberi di karitè. Si è scoperto che tali alberi assorbono le emissioni carboniche, inoltre con questo progetto si mira a potenziare il lavoro delle donne che da quest’albero traggono prodotti.
Copyright © Nigrizia - Per la riproduzione integrale o parziale di questo articolo contattare previamente la redazione: redazione@nigrizia.it

28 Giugno 2022
POLITICA
Nigrizia 28 Giugno 2022 Riproduzione parziale di un articolo di Marco Cochi
Togo e Gabon entrano nel Commonwealth
Dopo il Rwanda il 24 giugno altri due paesi africani francofoni, dopo dieci anni di attesa, si uniscono alla comunità anglofona che conta 56 nazioni e rappresenta un mercato di 2,5 miliardi di persone nel mondo, oltre il 60% dei quali sotto i trent’anni.
Ufficialmente, dopo la loro indipendenza, molti nuovi stati africani scelsero di entrare a far parte del Commonwealth per perpetuare i rapporti amichevoli con la Corona. Eppure, negli ultimi anni, il ruolo dell’organizzazione e la sua rilevanza sono sempre più messi in discussione. 
Alcuni stati, come Australia, Giamaica e Nuova Zelanda, aspirano a tagliare il cordone ombelicale con la monarchia britannica. Mentre, alla fine dello scorso novembre, le Barbados hanno rinunciato allo status di monarchia costituzionale per diventare una Repubblica, lasciando il Commonwealth Realm – che riconosce Elisabetta II come regnante e capo dello stato -, ora formato da 15 nazioni sparse nel pianeta.
Viene quindi lecito chiedersi cosa abbia spinto i due paesi dell’Africa occidentale, di lingua francese, ad unirsi all’organizzazione anglofona.
È importante ricordare che l’integrazione nella comunità anglofona non implica direttamente un vantaggio commerciale, ma significa avere accesso a un mercato di 2,5 miliardi di consumatori per esportare i prodotti nazionali, attrarre nuovi investitori e offrire la possibilità di stipulare accordi bilaterali con altri membri della comunità.
Una comunità che genera un prodotto interno lordo combinato è ora di circa 13 bilioni, che si prevede raggiunga i 19,5 bilioni (1 bilione = mille miliardi) nel 2027. Un mercato – con costi commerciali in media inferiori del 21%, e con flussi di investimento superiori del 27% rispetto a quelli tra paesi non aderenti – che si prevede aumenterà di 6,5 bilioni di dollari nei prossimi cinque anni, rispetto agli attuali 13 bilioni.
Del resto, è sotto gli occhi di tutti l’esempio del Rwanda, che da quando è entrato nel Commonwealth ha registrato una forte crescita economica.
L’ingresso nell’organizzazione intergovernativa, che promuove i diritti umani e lo sviluppo economico solidale, costituisce anche un importante riconoscimento politico per le autorità di Libreville e Lomé, a lungo criticate per la loro deriva autoritaria.
Senza contare che gli osservatori dell’organizzazione hanno svolto diverse missioni sul campo per esaminare l’evoluzione “democratica” delle istituzioni dei due paesi, che prima di entrare nel Commonwealth, dovevano soddisfare una serie di criteri, tra i quali spiccano il rispetto dei diritti umani e la separazione dei poteri.
Anche se Gabon e Togo riaffermano l’appartenenza all’organizzazione internazionale della Francofonia, il loro ingresso nel Commonwealth manda comunque un chiaro messaggio a Parigi: la Francia non brilla più come prima ed è arrivato il momento di aprirsi al mondo anglofono. Senza dimenticare, che i legami del Gabon con la Francia sono stati avvelenati dalla cosiddetta vicenda dei guadagni illeciti.
E sarà senza dubbio interessante vedere come si evolveranno, dopo il loro ingresso nell’organizzazione, le relazioni diplomatiche di Gabon e Togo, che di certo rinsalderanno i rapporti con il Regno Unito, sempre alla ricerca di nuovi partner dopo la Brexit.
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9 Luglio 2022
AMBIENTE
La Grande Muraglia Verde: la sfida ecologica del nostro tempo 
Articolo del 09/07/2022 dal sito Geopolitica: www.geopolitica.info 
Autore FILIPPO VERRE
Per far fronte alla grave crisi legata alla desertificazione che attanaglia molte aree del continente africano è stato ideato un piano audace e rivoluzionario: creare una vera e propria “cerniera” di vegetazione che separi il deserto del Sahara dalla savana saheliana. È la Great Green Wall – la Grande Muraglia Verde – una barriera di alberi lunga quasi ottomila chilometri e larga quindici che attraversa in largo il continente africano, dal Senegal fino all’Oceano Indiano. Teorizzato fin dal lontano 1952 dal biologo inglese Richard St. Barbe Baker, si tratta di un progetto che attualmente vede coinvolti ben undici Paesi africani e che potrebbe riconvertire circa cento milioni di arido deserto in terreni coltivabili.
La desertificazione, ovvero l’ampliamento dei deserti esistenti e la formazione, espansione o peggioramento della sterilità e aridità di vaste zone terrestri, è un serio problema che riguarda tutti gli esseri viventi. Uomini e animali sono direttamente coinvolti dal peggioramento delle condizioni ambientali dovute all’aumento della desertificazione. Inoltre, sotto il profilo economico-produttivo, la trasformazione di terreno fertile in deserto rappresenta un enorme danno per moltissime aziende che si trovano, nel giro di poco tempo, ad operare in regioni inospitali e improduttive. Nel 1994 è stata siglata una convenzione internazionale (UNCCD, Convenzione contro la desertificazione) per cercare di contrastare questo preoccupante fenomeno. Tale Convenzione definisce la desertificazione come «il degrado delle terre nelle aree aride, semi-aride e sub-umide secche, attribuibile a varie cause, fra le quali variazioni climatiche e attività umane». Tra le principali cause della desertificazione, in parte naturali e in parte dovute all’opera dell’uomo, si segnalano: la siccità, gli incendi, la deforestazione, l’urbanizzazione, l’inquinamento, lo sfruttamento agricolo troppo intenso, l’erosione provocata dalle piogge intense, lo sfruttamento eccessivo dei bacini acquiferi superficiali e sotterranei. La Grande Muraglia Verde rappresenta un tentativo per arginare e, nel tempo, arrestare quella che è diventata a tutti gli effetti una delle principali piaghe ecologiche del nostro tempo. 
Teorizzazione, storia e costo della Grande Muraglia Verde
La storia di questo ambizioso progetto risale al 1952, quando il biologo inglese Richard St. Barbe Baker teorizzò per la prima volta la necessità di costruire una barriera verde per impedire al deserto del Sahara di estendersi. Stando allo studioso britannico, vero e proprio guru delle teorie legate alla riforestazione nel Novecento, occorreva realizzare una lunga fascia alberata larga 50 km per contenere il deserto, che già negli anni Cinquanta del secolo scorso veniva percepito come una potenziale minaccia ambientale.  Tuttavia, l’idea di Barbe Baker divenne realtà solo nel 2007, ben 55 anni dopo la sua iniziale teorizzazione. Lanciato dall’Unione Africana, il progetto venne sostenuto fin da subito dall’Onu e finanziato dalla Banca Mondiale e da altre organizzazioni locali e internazionali con un esborso iniziale di circa tre miliardi di dollari. Attualmente, l’iniziativa sta ispirando sempre più Paesi africani, anche quelli non direttamente coinvolti, a far parte di un progetto ambizioso e potenzialmente rivoluzionario. 
L’aumento dell’interesse da parte di altri Stati africani si inserisce nel contesto della grande opportunità sociale e produttiva che la Grande Muraglia Verde potrebbe essere in grado di offrire. Nel corso dell’One Planet Summit per la biodiversità, che si è tenuto a Parigi l’11 gennaio 2021, sono stati stanziati circa 14.3 miliardi di dollari al fine di accelerare gli sforzi per ripristinare la terra degradata, salvare la diversità biologica, creare posti di lavoro verdi e rafforzare la resilienza della popolazione saheliana. L’investimento di una cifra di questo genere ha attratto molti attori – statali e non – desiderosi di inserirsi in un filone che si prospetta oltremodo dinamico e vantaggioso. La riforestazione di milioni di ettari, infatti, oltre a rappresentare una strategia ecologia imponente, è una grande opportunità economica per molte comunità africane che basano gran parte del proprio sostentamento su aree rurali. Nel concreto, infatti, stando ad alcune stime, i milioni di alberi che verrebbero piantati potrebbero catturare circa 250 milioni di tonnellate di carbonio e creare 10 milioni di posti di lavoro “verdi”.
Lo stato attuale dei lavori 
I lavori di riforestazione inquadrati nella costruzione della Great Green Wall sono iniziati nel 2008.  Il Senegal, secondo il New York Times, è diventato uno dei Paesi leader del progetto, avendo piantato una quantità notevole di alberi lungo una striscia di più di 530 chilometri, a nord del Paese, per un costo di 6 milioni di dollari. Si tratta di un risultato molto significativo, in linea con la politica green alla base del Grande Muraglia Verde. Stando ai dati, il tempo a disposizione per apportare un impatto significativo da un punto di vista ambientale in quella lunghissima e stretta fascia di territorio non è molto. Entro il 2025, secondo la FAO, due terzi delle terre coltivabili africane potrebbero andare incontro ad un inesorabile processo di desertificazione. Ciò comprometterebbe gravemente la vita delle popolazioni che vivono lungo la prima fascia di terre subsahariane – la regione del Sahel – che stanno già sperimentando le prime conseguenze dell’avanzamento del deserto a sud dell’Africa.
Nel momento in cui si scrive, il Sahara è il più grande deserto subtropicale al mondo, con un’estensione di circa nove milioni di chilometri quadrati, in cui vivono 232 milioni di persone. Numeri molto grandi, che certificano quanto la desertificazione abbia un impatto sociale oltre che nel contesto ambientale. Per avere un effetto positivo, la Grande Muraglia Verde deve essere completata – o almeno in larga parte realizzata – entro il 2030. Questo è il limite temporale fissato dall’Agenda ONU 2030 per lo sviluppo sostenibile. Secondo alcuni report presentati dalla FAO, per arrestare il degrado del suolo è necessario riqualificare dieci milioni di ettari all’anno. È un ritmo certamente serrato, ma che sarebbe in grado – secondo vari studiosi – di modificare in positivo la vita di decine di milioni di persone, oltre che di arrestare una delle più gravi crisi ambientali odierne. 
Conclusione 
Nonostante i numerosi benefici che un progetto del genere sarebbe in grado di apportare ad intere regioni e comunità, le incognite non mancano. La prima riguarda il grande numero di Paesi coinvolti. Come accennato, la Grande Muraglia Verde vede protagoniste ben undici nazioni africane. Nel dettaglio, si tratta di: Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Ciad, Sudan, Etiopia, Eritrea e Gibuti. Tanti, forse troppi, se si vuole realizzare obiettivi così ambiziosi in breve tempo. Se, infatti, alcune nazioni hanno realizzato fino a questo momento degli importanti progressi in ottica di riforestazione (Senegal), ve ne sono degli altri in cui i lavori sono andati molto a rilento. È il caso, ad esempio, del Mali, importante Stato saheliano che, a causa di recenti gravi instabilità politiche, non ha portato a casa i progressi sperati. Tutta la regione del Sahel, in realtà, è attraversata spesso da periodi di forti conflitti di varia natura, in cui l’instabilità politica è purtroppo una spiacevole tradizione. 
Oltre a ciò, si consideri che molte delle aree in cui dovrebbe sorgere questa imponente “cerniera” verde sono disabitate. La stretta linea saheliana che separa la savana dal deserto è storicamente poco densamente popolata, soprattutto a causa delle difficili condizioni ambientali e sociali riscontabili in quelle aree. Dunque, per provvedere alla grande opera di riforestazione si dovrebbe prima facilitare il trasferimento di un ingente numero di persone, le quali dovrebbero essere tecnicamente impiegate nei lavori di rimboschimento massivo necessario a raggiungere gli ambiziosi piani dell’Agenda 2030. 
La Grande Muraglia Verde rappresenta certamente una sfida ostica, per certi aspetti epocale. Le difficoltà, sotto il profilo organizzativo e tecnico, sono davvero ingenti. Nondimeno, la lotta alla desertificazione è in cima alle priorità della Comunità Internazionale sotto il profilo ambientale. Oltre all’importante ruolo nella cattura di emissioni di CO2 – documentato ormai da moltissimi lavori accademici – il rimboschimento massiccio potrebbe contribuire a risolvere un altro grave problema che attanaglia i nostri ecosistemi: la crisi idrica. Secondo un crescente numero di report scientifici, infatti, le foreste “attrarrebbero” umidità atmosferica e faciliterebbero le precipitazioni. In sostanza, dunque, piantare milioni di alberi potrebbe essere un significativo viatico per incentivare il ciclo dell’acqua. Questo aspetto è a dir poco rilevante anche in chiave europea, visto che le crisi di approvvigionamento idrico non riguardano solo lontane lande africane ma, come testimoniato dalla recente attualità, anche il territorio del Vecchio Continente. 


12 Novembre 2022
POLITICA
Da www.africarivista.it, 12 Novembre 2022
In Togo, l’Assemblea Nazionale ha adottato quattro leggi che rafforzano i diritti delle donne, in ambito professionale, giudiziario e familiare. I quattro testi sono leggi votate ieri, durante la 5ᵉ sessione plenaria della 2ᵉ sessione ordinaria dell’anno 2022, guidata da Yawa Djigbodi Tsegan, presidente dell’Assemblea Nazionale. 
Dalla stampa locale si apprende che le nuove leggi modificano le precedenti disposizioni sul codice del lavoro, sulla sicurezza sociale, sul codice personale e familiare e sul nuovo codice penale. 
L’emendamento al codice di sicurezza sociale, per esempio, rafforza i diritti sociali delle donne, riconoscendo loro non la metà ma l’intera retribuzione media giornaliera in seguito a un’interruzione del lavoro. L’emendamento al Codice della persona e della famiglia migliora lo stato civile, la posizione familiare e i diritti matrimoniali delle donne.


31 Gennaio 2024
AGRICOLTURA
Dalla Rivista Nigrizia, Gennaio 2024
Pesticidi a capotavola
L’Africa si conferma tra i mercati più appetibili per le multinazionali dell’agrochimico. Un trend
spinto dall’Europa, che vi esporta i prodotti fitofarmaci che ha bandito in casa
di Rocco Bellantone
Crescita demografica esponenziale, un’industria in lenta, ma costante espansione, assenza o
fragilità di quadri regolatori sia a livello nazionale che regionale, carenza di informazioni.
Sono questi i principali motivi che fanno oggi dell’Africa uno dei mercati più appetibili per le
multinazionali che producono pesticidi.
Nonostante il continente copra non più del 4% del mercato agrochimico globale, impiegando
meno di 0,4 kg di pesticidi per ettaro coltivato contro una media globale di 2,6 kg, negli ultimi anni il tasso di crescita della sua domanda è stato il secondo più alto al mondo, dietro all'America del sud: +67,8%, pari a 105.757 tonnellate, tra il 1999 e il 2020.
A mappare il trend è l’Atlante dei pesticidi 2023, realizzato dalla fondazione HeinrichBöll-Stiftung, Friends of the Earth Europe e PAN Europe. Secondo lo studio tra il 2005 e il 2015 l’Africa occidentale ha registrato un +177% nell’uso di pesticidi, con le importazioni di fitofarmaci che sono quasi triplicate complice la crescita delle produzioni agricole in Costa d’Avorio, Ghana e Nigeria.
Salute a rischio. 
A contendersi il mercato sono le società Adama Agricultural Solutions, Sumitomo Chemicals, UPL Limited e Bayer AgroScience AG.
Molti dei pesticidi che vendono ai paesi africani contengono principi attivi classificati come
“altamente pericolosi”, indicati con la sigla HHP (Highly hazardous pesticides).
Oms e Fao denunciano che il loro uso può comportare rischi acuti o cronici particolarmente alti sia per la salute umana che per l’ambiente, motivo per cui da anni non sono più autorizzati nei paesi membri dell’Ue. Le aziende europee, però, possono continuare a produrli e venderli a stati al di fuori dell’Unione.
E nel novembre scorso l’europarlamento ha anche respinto una proposta di regolamento europeo sui pesticidi che ne prevedeva il dimezzamento dell’uso e l’impossibilità di utilizzarli nelle aree sensibili entro il 2030.
Uno studio condotto dall’università del Michigan ha segnalato che il 76% degli agricoltori nello
Zambia fa uso di questa tipologia di pesticidi, l’87% in Mozambico.
In Kenya sono stati autorizzati 230 princìpi attivi, 51 dei quali non sono più consentiti nell’Ue.
Tra questi ci sono atrazina (prodotto da Syngenta), trichlorfon (Bayer) e fipronil (BASF). Il risultato è che il 67% dei pesticidi usati nel paese sono classificati come HHP. Di questi il 23% sono neurotossici. Gli effetti su chi lavora nelle coltivazioni sono devastanti.
Nel 2020 gli avvelenamenti mortali sono stati 154 in Nord Africa, 81 in Africa orientale e 67 in
Africa centro-meridionale. Mentre 110 milioni di persone in tutto il continente hanno riscontrato
problemi di salute. L’esposizione per periodi prolungati agli HHP può causare cancro, problemi cardiovascolari, malattie neurodegenerative, infertilità e, nei bambini, disturbi cognitivi.
Nessuno standard di sicurezza.
Non c’è quasi traccia dei basilari standard di sicurezza occidentali nei contesti in cui lavorano i circa 33 milioni di piccoli agricoltori del continente. Niente vaporizzatori a zaino, mascherine e guanti adeguati.  Pesticidi travasati da un contenitore all’altro senza che vengano date istruzioni su come comprendere le avvertenze di sicurezza sul loro uso. Contenitori e imballaggi vuoti riempiti con prodotti contraffatti e venduti come se fossero originali, pratica che riguarderebbe almeno il 20% dei prodotti commercializzati. «Molte multinazionali distribuiscono dei kit di sementi e piante che resistono all’uso del glifosato - sottolinea Angelo
Gentili, responsabile nazionale di Legambiente per l’agricoltura e tra i curatori della versione
italiana dell’Atlante dei Pesticidi 2023, realizzata anche da Fondazione Cariplo e dalla coalizione Cambiamo Agricoltura - Vengono spinte coltivazioni che richiedono l’uso di acqua dove però di acqua non ce n’è, si insiste sulle monoculture diminuendo così la fertilità dei suoli. Nel 44% degli alimenti che consumiamo in Italia ci sono tracce di uno o più fitofarmaci, e la percentuale sale al 70% nella frutta».
Biodiversità in pericolo.
In pratica, l’Europa esporta in Africa prodotti e princìpi attivi che ha bandito nel suo territorio e
impone pratiche colturali che, in casa propria, promette di sostituire in favore di un’agricoltura
sempre più biologica ed ecologica.
«L’altro grosso problema riguarda i pesticidi utilizzati per la coltivazione di mangimi che poi
importiamo da questi paesi - sottolinea Federica Luoni, responsabile agricoltura della Lipu e
portavoce della coalizione Cambiamo Agricoltura -.
Ci sono specie migratrici impattate tre volte da questi processi: dai pesticidi in Europa dove
nidificano, poi in Africa dove svernano, infine dagli effetti dei cambiamenti climatici nei tragitti che compiono. Questi danni sulla biodiversità sono dei campanelli di allarme anche per gli esseri umani». L’industria dei pesticidi non sembra però curarsi di questi allarmi, e la politica europea continuerà ancora a lungo a piegarsi ai suoi interessi.
IN KENYA L’80% DEI CAMPIONI DI POMODORI ANALIZZATI HANNO MOSTRATO PIÙ DI UN RESIDUO DI HHP.
IN NIGERIA , NEGLI ULTIMI ANNI, I FAGIOLI HANNO PRESENTATO ALTI LIVELLI DI CONTAMINAZIONE AL PUNTO CHE L’UE HA DOVUTO VIETARNE L’IMPORTAZION

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